Nel dibattito sulla formazione del nuovo governo si è sentita per l’ennesima volta riecheggiare, questa volta ad opera del sindaco fiorentino Matteo Renzi, la proposta che quasi tutti i candidati hanno finora fatto prima di scontrarsi con la dura realtà: abolire l’IRAP, cioè l’imposta regionale sulle attività produttive.
L’IRAP in effetti costituisce una specie di mostruosità fiscale, ignota negli altri paesi; essa esprime tutte le contraddizioni del sistema italiano e costituisce ormai un pilastro basilare del nostro sistema fiscale.
L’IRAP fu introdotta nel 1997 dal governo Prodi e precisamente da quello che, a posteriori, è possibile giudicare come il migliore ministro delle Finanze degli ultimi 30 anni: Vincenzo Visco.
Il ragionamento di Visco, se lo ricorda bene chi come me allora era già attivo in campo economico, era molto semplice: poiché tantissime imprese dichiarano un utile pari a zero o negativo, e quindi non verso nulla come imposte sull’utile, inventiamo una imposta a cui non possano sfuggire, cioè un’imposta la cui base imponibile per il calcolo non sia costituita soltanto dall’utile ma anche dal costo del personale, una spesa che (se il lavoro è regolare) non si può in alcun modo nascondere.
L’IRAP ha un’aliquota bassa (3,90%) che però si applica a una base di calcolo elevata, quindi il suo gettito non è affatto trascurabile. Si tratta di un gettito che va alle Regioni, e che finanzia la spesa sanitaria di queste ultime, quindi Ospedali, medici di base, pediatri, ecc.
Peraltro, quando fu istituita, l’IRAP semplificò il sistema fiscale in quanto andò a sostituire numerose imposte: l’Ilor (Imposta locale sui redditi), l’Iciap, imposta sul patrimonio netto delle imprese, la tassa di concessione governativa sulla Partita Iva (incubo delle nuove imprese), la tassa della salute, ecc.
Certamente una brillante idea che però è diventata micidiale negli anni della Grande Crisi. Oggi infatti che molte imprese presentano utili nulli o negativi perché effettivamente gli affari vanno male, il fatto di dovere pagare in un anno di pareggio o di perdita una imposta abbastanza pesante (soprattutto per chi ha molti dipendenti) costituisce un aggravio insostenibile e una spinta fortissima a chiudere o a delocalizzare spostando la produzione al di fuori dell’Italia.
Oggi l’IRAP appare sempre più come un pasticcio all’italiana, volto a mettere una toppa a una finanza pubblica disastrata, con misure che danneggiano il sistema produttivo (e quindi il futuro gettito fiscale) e si rivelano fortemente penalizzanti soprattutto per quelle imprese che occupano molte persone e quindi hanno un elevato costo del personale.
Come in tanti pasticci all’italiana non è facile rimediare. In tanti hanno detto di volere abolire l’IRAP, ma nessuno l’ha fatto. Solo il governo Prodi del 2006 riuscì ad abbassarla, e di molto poco portandola dal 4,25% originario al 3,90% attuale.
In lunghi anni di governo, e dopo avere speso parole di fuoco contro l’imposta, neppure l’allora onnipotente ministro Tremonti (e tutto il suo partito che dipingeva il predecessore Visco come un “vampiro”) fece effettivamente qualcosa.
Il motivo è semplice: abolire l’IRAP vorrebbe dire chiudere fare fallire il sistema sanitario nazionale e quindi togliere ai cittadini gli ospedali e i medici, cioè mettere tutto a pagamento, come nei paesi del terzo mondo.
Nessuno ovviamente può farlo: scoppierebbe una rivoluzione.
Ci riuscirà Renzi? Vedremo, anche se a mio avviso sarà molto difficile persino che un nuovo governo la possa abbassare dello 0,10-0,20% (come pure Prodi riuscì a fare, ma in anni migliori).
Però in effetti qualcosa potrebbe succedere: la demagogia non ha limiti e la politica italiana ci ha abituato, come nel caso dell’IMU, a una sorta di furfantesco gioco delle tre carte, dove una imposta viene abolita sostituendola con una simile cambiata di nome. E ovviamente aumentata d’importo…