Month: febbraio 2014

Ma davvero l’IRAP verrà abolita?

Nel dibattito sulla formazione del nuovo governo si è sentita per l’ennesima volta riecheggiare, questa volta ad opera del sindaco fiorentino Matteo Renzi, la proposta che quasi tutti i candidati hanno finora fatto prima di scontrarsi con la dura realtà: abolire l’IRAP, cioè l’imposta regionale sulle attività produttive.

L’IRAP in effetti costituisce una specie di mostruosità fiscale, ignota negli altri paesi; essa esprime tutte le contraddizioni del sistema italiano e costituisce ormai un pilastro basilare del nostro sistema fiscale.

L’IRAP fu introdotta nel 1997 dal governo Prodi e precisamente da quello che, a posteriori, è possibile giudicare come il migliore ministro delle Finanze degli ultimi 30 anni: Vincenzo Visco.

Il ragionamento di Visco, se lo ricorda bene chi come me allora era già attivo in campo economico, era molto semplice: poiché tantissime imprese dichiarano un utile pari a zero o negativo, e quindi non verso nulla come imposte sull’utile, inventiamo una imposta a cui non possano sfuggire, cioè un’imposta la cui base imponibile per il calcolo non sia costituita soltanto dall’utile ma anche dal costo del personale, una spesa che (se il lavoro è regolare) non si può in alcun modo nascondere.

L’IRAP ha un’aliquota bassa (3,90%) che però si applica a una base di calcolo elevata, quindi il suo gettito non è affatto trascurabile. Si tratta di un gettito che va alle Regioni, e che finanzia la spesa sanitaria di queste ultime, quindi Ospedali, medici di base, pediatri, ecc.

Peraltro, quando fu istituita, l’IRAP semplificò il sistema fiscale in quanto andò a sostituire numerose imposte: l’Ilor (Imposta locale sui redditi), l’Iciap, imposta sul patrimonio netto delle imprese, la tassa di concessione governativa sulla Partita Iva (incubo delle nuove imprese),  la tassa della salute, ecc.

Certamente una brillante idea che però è diventata micidiale negli anni della Grande Crisi. Oggi infatti che molte imprese presentano utili nulli o negativi perché effettivamente gli affari vanno male, il fatto di dovere pagare in un anno di pareggio o di perdita una imposta abbastanza pesante (soprattutto per chi ha molti dipendenti) costituisce un aggravio insostenibile e una spinta fortissima a chiudere o a delocalizzare spostando la produzione al di fuori dell’Italia.

Oggi l’IRAP appare sempre più come un pasticcio all’italiana, volto a mettere una toppa a una finanza pubblica disastrata, con misure che danneggiano il sistema produttivo (e quindi il futuro gettito fiscale) e si rivelano fortemente penalizzanti soprattutto per quelle imprese che occupano molte persone e quindi hanno un elevato costo del personale.

Come in tanti pasticci all’italiana non è facile rimediare. In tanti hanno detto di volere abolire l’IRAP, ma nessuno l’ha fatto. Solo il governo Prodi del 2006 riuscì ad abbassarla, e di molto poco portandola dal 4,25% originario al 3,90% attuale.

In lunghi anni di governo, e dopo avere speso parole di fuoco contro l’imposta, neppure l’allora onnipotente ministro Tremonti (e tutto il suo partito che dipingeva il predecessore Visco come un “vampiro”) fece effettivamente qualcosa.

Il motivo è semplice: abolire l’IRAP vorrebbe dire chiudere fare fallire il sistema sanitario nazionale e quindi togliere ai cittadini gli ospedali e i medici, cioè mettere tutto a pagamento, come nei paesi del terzo mondo.

Nessuno ovviamente può farlo: scoppierebbe una rivoluzione.

Ci riuscirà Renzi? Vedremo, anche se a mio avviso sarà molto difficile persino che un nuovo governo la possa abbassare dello 0,10-0,20% (come pure Prodi riuscì a fare, ma in anni migliori).

Però in effetti qualcosa potrebbe succedere: la demagogia non ha limiti e la politica italiana ci ha abituato, come nel caso dell’IMU, a una sorta di furfantesco gioco delle tre carte, dove una imposta viene abolita sostituendola con una simile cambiata di nome. E ovviamente aumentata d’importo…

Good Spending. I costi della disoccupazione e le colpe del non spendere (Parte 2)

Abbiamo visto nel post precedente sul Good Spending che un programma di sostegno alle start up può autofinanziarsi e costituisce la dimostrazione che di fronte alla crisi tagliare la spesa pubblica serve soltanto a deprimere l’economia.

Viceversa una buona spesa mette in moto energie, innovazione e occupazione e contribuisce anche ad alimentare le entrate fiscali.

Cosa sarebbe accaduto se le 30 nuove imprese innovative non avessero ricevuto un efficace sostegno?

E’ semplice, molte di loro non sarebbero mai partite, e una parte delle persone (spesso giovani) sarebbero rimaste disoccupate, a carico di qualche programma pubblico (sussidi, reddito di cittadinanza, ecc.) o comunque delle loro famiglie.

Diciamo che una stima ragionevole e prudente potrebbe essere 50:50.

15 imprese quindi non sarebbero nate e non avrebbero generato alcun reddito per i loro addetti (soci e dipendenti: supponiamone 4 a impresa) e alcuna entrata fiscale.

Tocchiamo qui con mano i costi della disoccupazione, piaga principale dell’attuale crisi economica.

Le 60 persone disoccupate (tutte persone ad alta qualificazione, data l’innovatività delle start up) sopravviverebbero certo, ma frustrate (elemento psicologico non trascurabile) e con un costo sociale (stato o famiglia) che potremmo stimare come pari a un reddito di sopravvivenza, diciamo 800 Euro al mese e quindi 9.600 Euro annui.

60 persone che gravano sul bilancio pubblico o su quello familiare per 9.600 Euro all’anno, costano 576.000 Euro all’anno, e (se la disoccupazione permane) 1.728.000 in 3 anni.

Più del costo del programma di sostegno alle start up!

Qualora non finanziasse il programma lo Stato quindi non solo perderebbe il gettito fiscale calcolato nel precedente articolo, ma genererebbe per la collettività un onere ancor superiore.

Un vero “danno erariale” per le casse dello Stato (e delle famiglie), ma allo stesso tempo effetti depressivi non solo per i soggetti coinvolti, ma per l’intera economia.

Per i fornitori, certamente, ma anche per tutte quelle imprese che potenzialmente sarebbero ben liete di potersi avvalere dei servizi e dei prodotti delle start up, ricavandone stimoli innovativi anziché rinunciarvi o doversi rivolgere ad altri fornitori, spesso esteri.

Nel prossimo articolo cercheremo di capire perché i governi e la UE sono oggi così miopi da deprimere il sistema delle imprese e l’economia nel suo insieme.

 

 

Il costo della disoccupazione

Persone   per progetto

4

Persone   coinvolte                 120
Di cui   disoccupate in assenza del progetto

50%

N.disoccupati                  60
Sostegno   annuale al reddito per ogni disoccupato

9.600

Costo   sostegno annuale al reddito          576.000
Su 3 anni        1.728.000

 

Verso il tramonto di Facebook?

Secondo una ricerca del dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale dell’università di Princeton, l’80% degli utenti di Facebook abbandonerà il social network tra il 2015 e il 2017.

Lo studio, ripreso dalla rivista “Time”, sostiene che per comprendere il fenomeno Facebook sia necessario paragonarlo a un virus: che si diffonde rapidamente, ottiene un picco significativo di “infetti” e altrettanto velocemente si ritira, lasciando il social network con l’80% di utenti in meno alla fine del 2017.

Se così fosse, al di la delle sorti finora molto felici dell’azienda di Mark Zuckerberg, cambierebbero le prospettive di molte imprese (e nuove imprese) che oggi puntano sulle potenzialità di contatto che Facebook teoricamente con il suo miliardo di utenti dichiarati (in tutto il mondo).

Da luogo di incontro obbligato, Facebook finirebbe per rivelarsi (come molti sospettano da tempo) una fiera delle vanità e di egocentrismo di un numero calante di persone, che tramite il profilo comunicano che il loro gattino è nato o che hanno cambiato il fidanzato, postando foto dei propri tatuaggi o dei propri idoli musicali. Questo a un mondo disattento e a reti di amicizie dove gli amici reali sono veramente pochi.

http://www.genesis.it/pubblicazioni-libri1.htm