L’errore strategico dell’Europa ha una data precisa: 25 marzo 2012. Quel giorno l’Europa decide di passare dai parametri di Maastricht (max 3% deficit annuale; max 60% debito complessivo) al cosiddetto “fiscal compact”, che significa:
- l’impegno ad avere un deficit strutturale che non superi annualmente lo 0,5% del PIL;
- l’obbligo per i Paesi con un debito pubblico superiore al 60% del PIL, di rientrare entro tale soglia nel giro di 20 anni;
- l’impegno a inserire le nuove regole nella Costituzione o comunque nella legislazione nazionale, che verrà verificato dalla Corte europea di giustizia (e l’Italia è stato il primo paese a introdurre in Costituzione il pareggio di bilancio).
Nel marzo 2012 era ormai evidente che gli stessi parametri di Maastricht erano difficilmente raggiungibili, in un economia fiaccata dalla crisi, con un gettito fiscale calante e spese sociali più alte per ogni stato.
In quell’anno doveva essere presa, saggiamente, una misura che allentasse il cilicio (autoimposto) di Maastricht; per rilanciare le economie si sarebbe potuto portare il 3% al 4% o al 5%, seppure solo per qualche anno (e rimanendo all’interno della logica dell’austerità, probabilmente del tutto sbagliata).
Invece no. Su pressione del paese più forte (la Germania) si decise di rendere ancora più duro il percorso. Il 3% veniva portato addirittura allo 0,5%. Da allora l’economia europea ha aggravato la sua crisi, mentre altre aree del mondo (non solo in Asia) corrono velocemente.
Cosa c’entra il grande e indimenticato “pirata” con il nostro ragionamento?
La manovra tedesca assomiglia allo strappo del ciclista in salita. Quando il campione si accorge di essere il più forte, non sta certo ad aspettare gli altri. Scatta e va a vincere. Marco Pantani, quando in salita si avvicinava il traguardo, buttava via la bandana gialla, si alzava sui pedali e scappava via da solo.
Bellissimo, ma solo nel ciclismo! I paesi dell’Unione Europea non sono atleti in competizione fra loro. Sono come un gruppo che deve andare il più forte possibile, ma mantenendosi unito.
Non facendo morire d’infarto o abbandonando a se’ stessi quasi tutti i membri del gruppo che non ce la fanno a tenere il ritmo del più forte.