Riflessioni al supermercato

Nel punto vendita di una nota catena di supermercati si può trovare sugli scaffali una confezione di detersivo per piatti da mezzo litro a un prezzo di 0,90 Euro. A fianco, una confezione da un litro ha un prezzo di 0,95 Euro. Come è possibile? Il doppio del contenuto con una differenza di soli 5 centesimi?

Facciamo alcuni semplici calcoli: se mezzo litro di contenuto vale 5 centesimi, un litro ne vale 10. Quindi comprando una confezione da un litro a 0,95 centesimi stiamo in realtà spendendo 10 centesimi per il contenuto e 85 per la confezione. Che indubbiamente è carina, plastica colorata, etichetta, moderno erogatore a pistola.

Quello però che ci interessa come consumatori è il contenuto, cioè il detersivo. La confezione è un contorno, e costa ulteriormente per il suo smaltimento a rifiuto, se non a noi direttamente alla città per i servizi di smaltimento (e a noi come TARI). Oltre al tempo dedicato alla raccolta differenziata.

Sulla base di questa situazione possiamo svolgere, credo, quattro considerazioni.

La prima: perché non incentivare l’uso di prodotti alla spina, acquistabili senza confezione? Se ne è parlato, ma poi non si è fatto nulla.

La seconda considerazione (ecologia): ha senso drogare i consumi con un così alto carico di rifiuti?

La terza (macroeconomia): nella contabilità nazionale della produzione, quella confezione di detersivo entrerà con un valore di 0,95 Euro, oltre a quello che verrà speso successivamente per lo smaltimento della confezione come rifiuto. Circa 10 volte più del valore effettivo. La nostra contabilità nazionale e gli indicatori del benessere non sono drammaticamente falsati?

La quarta (politica estera): non è che abbiamo marciato baldanzosi e tronfi contro la Russia sicuri di essere molto più forti per via degli indicatori che ci dicevano che il loro PIL era come quello della Spagna, cioè poca cosa rispetto a quella dell’intera Europa?

Come mettere a reddito un terreno inutilizzato

Molte persone sono proprietarie di un piccolo terreno di famiglia che è sottoutilizzato e improduttivo. Genera costi, tasse e pochi ricavi. Cosa si può fare per migliorare la situazione? Cosa dice l’esperienza di Genesis?

Soluzione 1. Agricoltura

Una soluzione per mettere a reddito un terreno inutilizzato è quella di avviare una coltivazione agricola. Se il terreno è piccolo (ad esempio un ettaro) le colture devono essere ad alto valore aggiunto, non ad esempio colture estensive come grano o mais, che richiedono poco impegno ma hanno una resa economica bassa. Molto meglio invece puntare su colture come la lavanda, i piccoli frutti, lo zafferano. Ovviamente, la sceltadipende anche dalla zona geografia e dal clima della zona: i piccoli frutti richiedono molta acqua, lo zafferano al contrario è possibile solo in climi aridi.

Su queste colture ad alto valore aggiunto, vedi:

Avviare e sviluppare una COLTIVAZIONE DI LAVANDA – Genesis

Avviare e sviluppare una COLTIVAZIONE DI PICCOLI FRUTTI – Genesis

Avviare e sviluppare una COLTIVAZIONE DI ZAFFERANO – Genesis

Soluzione 2. Turismo itinerante

Una seconda soluzione per mettere a reddito un terreno inutilizzato è quella di uscire dall’agricoltura e rivolgersi al turismo. Ad esempio a un turismo in forte crescita (più degli alberghi): quello itinerante. Grande sviluppo stanno avendo negli ultimi anni le aree di sosta per camper: strutture rivolte al pubblico crescente dei turisti italiani e stranieri che amano spostarsi in modo autonomo, con la famiglia o gli amici.

Queste strutture possono essere realizzate con investimenti abbastanza piccoli, per realizzare piazzole sorvegliare con le utenze e i servizi di base.

Avviare e sviluppare un’area di sosta per camper

Più impegnativa finanziariamente (ma non troppo) è la realizzazione di un piccolo Camping, che per quanto piccolo deve assicurare agli ospiti un numero più elevato di servizi (quasi indispensabile, ormai, la piscina), con la conseguenza di dovere sopportare maggiori investimenti e costi di gestione (personale, utenze, ecc.).

https://www.genesis.it/prodotto/avviare-e-sviluppare-un-piccolo-camping

 Soluzione 3. Piccolo impianto sportivo

Per mettere a reddito un terreno inutilizzato, esiste poi la possibilità di un impianto sportivo. Ma quale? L’esperienza di Genesis e i dati di mercato dicono che oggi vi è una forte affluenza di praticanti verso sport quali il Paddle e il calcetto, che si basano su piccole strutture.

Su questi sport, vedi:

Avviare e sviluppare un CAMPO DI PADDLE-TENNIS

Avviare e sviluppare un CAMPO DI CALCETTO (Calcio a 5 e a 7)

Fra gli impianti sportivi possibili in un terreno piccolo dobbiamo ricordare le piste da motocross, per l’allenamento e competizioni minori (per quelle più importanti servono terreni di alcune decine di ettari).

Avviare e sviluppare una PISTA DA MOTOCROSS – Genesis

Su un piano completamente diverso vi sono poi i campi per l’addestramento e le competizioni (ad esempio di Agility) per i cani.

Avviare e sviluppare un CENTRO RICREATIVO E SPORTIVO PER CANI – Genesis

Ognuna delle idee che abbiamo suggerito può essere realizzata con successo tenendo conto di tutte le regole e di tutti i dati economici e finanziari (su mercato, investimenti, costi di gestione, ecc..) che sono contenuti, insieme a esempi e consigli su possibili errori da evitare, nei KIT di Genesis, che contengono una Guida e un software per fare le proprie simulazioni.

Le potenzialità di Job Creation dello sport (Parte I)

Il settore sportivo produce un valore aggiunto di 22 miliardi di Euro, equivalenti all’1,3% del PIL italiano. Lo sport si conferma una importante industria, con un potente effetto leva in termini di ricadute economiche (moltiplicatore stimato pari a 2,2). E’ quanto emerge dal Il “Rapporto sport 2023” dell’ICS (Istituto per Credito Sportivo).

Il 16% del valore prodotto deriva da attività sportive, ad esempio vendita di biglietti, iscrizione a corsi, lezioni. L’84% del valore del mercato deriva però dall’indotto. 10 miliardi di Euro sono generati dalle attività strettamente connesse (quali la produzione e vendita di attrezzature e abbigliamento sportivo) e altri 8,4 miliardi da comparti connessi in senso lato (media sportivi, i servizi turistici, di trasporto e quelli medici).

Il 76,6% del PIL dello Sport consiste di servizi (settore terziario), mentre il 14% del valore del mercato è fatto di prodotti industriali. Il commercio concorre per il 4,3%, l’agricoltura per il 3,0%, le costruzioni per il 2,1%.

Il comparto (servizi) che fornisce il contributo più rilevante in termini di apporto economico è quello dell’istruzione, che genera un quarto del valore aggiunto dello Sport. Domina la componente “istruzione” (formazione sportiva da parte di insegnanti e allenatori, campi scuola per la preparazione sportiva, scuole di vela e di navigazione che rilasciano brevetti e patenti, corsi di danza, oltre all’insegnamento della materia educazione fisica negli istituti scolastici nazionali) a conferma il ruolo educativo dello Sport, che, dice la ricerca, rappresenta, di fatto, la terza agenzia educativa dopo la famiglia e la scuola.

Fra le attività emergenti la ricerca rileva il considerevole sviluppo del comparto degli eventi sportivi.

ll Covid, e il modo in cui è stata gestita la pandemia, sono stati una sciagura, che ha tolto al settore quasi 4 miliardi di PIL, segnando un drastico crollo degli investimenti, mentre la crisi energetica per la rinuncia alla energia russa ha compromesso l’equilibrio finanziario di molte strutture, fortemente penalizzate dall’aumento delle bollette di elettricità e gas (ad esempio piscine e palestre).

Il sistema Sport mantiene tuttavia uno zoccolo duro di addetti, che si aggira attorno alle 400 mila unità, grazie alla presenza di oltre 15 mila imprese private, circa 82 mila Enti non profit e quasi 900 mila volontari.

Le imprese sono identificate dal Codice Ateco 93.1 e includono gli operatori che svolgono le seguenti attività: gestione di impianti sportivi (stadi, piscine, strutture polivalenti, ecc.); attività di club sportivi; palestre (club e strutture per fitness e culturismo); promozione di eventi sportivi.

Il 54% del fatturato è generato dalle imprese private, mentre la quota restante è riconducibile alle Amministrazioni Pubbliche (AP) e alle Istituzioni private senza fine di lucro (ISP).

(continua)

Cosa cambia nel mondo per l’economia europea, e per tutti noi

Le cose intorno a noi cambiano velocemente, e occorre tenerne conto.

Le due colonne portanti della Unione Europea, Germania e Francia, stanno vacillando. La Germania paga e pagherà duramente, e noi Italia come suo indotto, la crisi russo-ucraina. Il rapporto che era stato costruito pazientemente nel dopoguerra (energia in cambio di tecnologia, in un clima di pace), con la Unione Sovietica prima e con la Russia poi, si è gravemente incrinato, come è noto. L’Europa, che con le sue sanzioni avrebbe dovuto “ridurre la Russia a un paria” (tipica espressione del colonialismo), sia subendo conseguenze pesanti su diversi settori, dall’automobile ai macchinari industriali al turismo.

A questa triste vicenda, che dura ormai da un anno è mezzo, si è aggiunta recentemente quella del Niger, con l’estromissione del governo legato alla Francia, e con la radicale contestazione delle politiche di presidio post-coloniale dell’economia, attraverso il Franco CFA (“Colonie Francesi d’Africa”, poi diventato “Comunità Finanziaria Africana”) gestito da Parigi, le esclusive sulle estrazioni di minerali, le priorità alle aziende nell’affidamento delle commesse pubbliche, nella gestione delle risorse.

Delle due vicende, quella che ha un’impronta strutturale è proprio questa. La Francia, brillante potenza capace di subire relativamente il mercato petrolifero, grazie alla sue centrali nucleari, si trova in prospettiva a dipendere da forniture di uranio (per le centrali nucleari) provenienti dal Niger che non controlla più, o in alternativa dalla Russia, secondo grande produttore mondiale.

Difficile fare retrocedere le intenzioni anti-francesi di diversi stati africani. E’ vero, il panafricanista Gheddafi ci aveva provato e finì molto male. Però dalla liberazione dell’Algeria fino a quella del Sudafrica di Mandela, passando per le rivoluzioni in Angola e Mozambico, l’Africa sta cambiando e sembra che ci sia sempre meno spazio per le potenze ex-coloniali. Il movimento sembra irreversibile e produrrà nuovi equilibri, coinvolgendo anche Cina e Russia.

Sul fronte russo-ucraino, dove l’opinione pubblica è paradossalmente più eccitata, i movimenti sembrano invece meno profondi. Il legame col petrolio e il gas russo a basso costo interessa tutta l’Europa, non solo la Germania o l’Italia, persino la Polonia e l’Ucraina. La Polonia ha una industria dipendente da quella tedesca e se vuole crescere deve potere contare su fonti energetiche a basso costo. L’Ucraina, che ormai ha perso le miniere e l’industria del Donbass, se vuole uscire dallo status di paese agricolo, deve fare i conti con queste variabili.

Certo, è un rapporto che non piace agli USA. Ma quante cose non piacciono agli USA: dall’Euro al primato di Airbus su Boeing. Gli stessi USA, però, non possono permettersi di sgretolare il grande conglomerato manifatturiero dell’alleato europeo, formatosi nei secoli a partire dal lontano medioevo, e di cui anche l’industria americana è stata figlia a partire dall’800.

A meno di non volere regalare la manifattura all’altro grande polo mondiale, la Cina, “fabbrica del mondo” sempre meno esecutrice di commesse di basso valore e sempre più leader in molti settori. Cina che ogni anno, tanto per mandare un messaggio eloquente, laurea ogni anno un milione di nuovi ingegneri, contro i 60 mila della Germania e i 300 mila degli Stati Uniti.

Forse è meglio programmare di più

Le imprese sono sempre più impegnate nel progettare gli investimenti e le attività, tramite strumenti come il Business Plan. Sanno benissimo che senza una buona progettazione le probabilità di errore e di fallimento aumentano notevolmente.

Sconcertò quindi, nell’anno del Covid, imparare che chi avrebbe dovuto redigere il Piano pandemico per prepararsi a eventuali pandemie (che poi sono arrivate), se la cavava con i copia e incolla dei documenti precedenti. Il risultato fu che quando il Covid arrivò, mancavano le mascherine e gli altri dispositivi di protezione, cosa che fece in primo luogo impennare le morti dei sanitari.

Sconcertò anche scoprire che medici e infermieri scarseggiavano (e scarseggiano ancora), perché anziché prevederne un aumento era stata scelta la strada di restringere gli accessi all’Università (numero chiuso).

Sconcerta oggi, con le alluvioni, perché non ce lo saremmo aspettato in una regione come l’Emilia-Romagna, che le spese per la manutenzione dei letti dei fiumi era stata tagliata, che agli argini pochi pensavano, che i bacini di laminazione per contenere le acque erano stati costruiti in minima parte, che addirittura dei fondi non erano stati utilizzati.

Nel nostro paese, per alcuni anni è stata data la priorità assoluta al rifacimento (importante per carità) delle facciate dei palazzi, scordandosi così degli argini dei fiumi…

Anni fa furono smantellate le Province e le Comunità Montane, accusate di inutilità e di sprechi. I risultati si sono visti: senza Province e Comunità Montane le montagne sono franate a valle.

Forse è necessario ripensare molte cose, rafforzando le capacità di previsione e di intervento. Troppo facile vivere alla giornata (il “presentismo”), accusare le nutrie, incolpare il destino (piogge imprevedibili), prendersela con gli ambientalisti, insomma autoassolversi (è sempre colpa degli altri), predisponendosi così per nuovi disastri, se non si corregge urgentemente qualcosa.

Il presentismo e le alluvioni di Romagna

I fatti drammatici dell’alluvione in Romagna dimostrano ancora una volta che nell’Italia di oggi, e da diversi anni ormai, è venuta meno la capacità di guardare avanti e di programmare le risorse. Nella terra (la Romagna) in cui gli amministratori di 40 anni fa ebbero la lungimiranza di costruire la Diga di Ridracoli, oggi non si fa neppure la più banale manutenzione degli argini, si edifica vicino ai fiumi, non si utilizzano i fondi per costruire casse di espansione in caso di piene, si è in balia di torrentelli (uno si chiama addirittura “Pisciatello”) con una portata d’acqua ridicola (rispetto ad esempio ai fiumi del nord Europa, della Russia o della Cina).

La Regione stanzia fondi per il gran premio di Formula 1 di Imola (evento importante, per carità), ma lesina sulla manutenzione del territorio.

A monte vi è la ideologia europea della stabilità finanziaria, che predica di operare tagli su tutto, dalla sanità al territorio. Quelli che furono propagandati come salvatori della patria, perché portavano avanti la cosiddetta Spending Review, erano chiamati “mani di forbice”.

La sanità, a proposito. Quale peggiore errore di programmazione, in Italia e non solo in Emilia-Romagna, del mettere il numero chiuso nelle Università di Medicina, quando era facilmente prevedibile che l’invecchiamento della popolazione avrebbe provocato, di lì a 20 anni, una esplosione della domanda di cure mediche e quindi una maggiore dotazione di professionisti della sanità?

Si programma poco e male. Lo stesso PNRR, che doveva essere un momento di svolta, si è trasformato in una sommatoria di migliaia di progetti locali, mal coordinati e in buona parte difficili da attuare. Se le risorse non verranno spese, le si potrà comunque dirottare verso la guerra, per comprare missili e carri armati. Per alcuni, forse, sarà meglio così.

Il filosofo francese François Hartog, nel suo «Regimi di storicità», ha definito “Presentismo” questo atteggiamento contemporaneo. Presentismo è non guardare più al passato come portatore di insegnamenti, o al futuro come orizzonte di progresso, ma vivere nell’urgenza del contingente, appiattirsi sui social, accettare i lavori precari (anche quelli degli altri, che ci portano la pizza a casa), pensare che il “mercato” risolve spontaneamente ogni problema, eliminare l’intervento pubblico e ovviamente non programmare. I risultati sono sotto i nostri occhi.

La Germania non è cattiva, ma semplicemente sa fare i propri interessi

Il gigantesco (200 miliardi di Euro) piano di aiuti deciso dal Governo tedesco per alleviare i drammatici aumenti dei costi energetici per le famiglie e le imprese è molto significativo.

La “sfinge” Scholz, uomo di poche parole, volto impassibile e sguardo impenetrabile (quasi come Putin e tutti gli abili scacchisti), è noto per essere un grande mediatore. Non scalda i cuori ma si sforza di studiare la soluzione per fare  la scelta migliore.

E’ evidente da mesi che Scholz cerca di frenare il fanatismo guerrafondaio, da un lato del potente e arrogante alleato americano, e dall’altro degli ultranazionalisti ucraini alla Zelensky, che più perdono e più aizzano alla guerra chiedendo nuove armi.

Per quanto però la Germania abbia lesinato aiuti militari, per non aggravare la situazione, la guerra c’è e forse (non è detto) continuerà a lungo. La vera causa dei rincari energetici, che sta proprio nella guerra, nelle sanzioni occidentali e nelle pesanti controsanzioni russe, è un dato di fatto che non si può rimuovere.

Che fare allora? Dove investire le grandi risorse di cui la Germania dispone?

Non in armamenti per Zelensky, ma neppure in un piano europeo, quale quello invocato dall’Italia di Draghi e da altri paesi, secondo cui l’emergenza energetica dovrebbe essere affrontata con una politica comune, come per il Covid, dove però chi finanziò gli aiuti fu soprattutto la Germania.

Il caso dell’Italia è paradossale. In prima fila con la coppia Draghi-Di Maio nell’agitare il pugno sotto il mento della Russia, e nel donare a spese del contribuente italiano carri armati, missili e aerei (destinati ad andare in fumo, insieme alle vite di migliaia di soldati ucraini), non ha le risorse per soccorrere i suoi cittadini e le sue imprese, quindi invoca l’aiuto europeo (e tedesco).

La Germania è abituata, nei momenti importanti, a fare da sola. I due oleodotti Nord Stream (oggi temporaneamente fuori uso) furono concepiti per dare un vantaggio competitivo (grazie ai bassi costi del gas) all’industria tedesca, ma cofinanziati dai fondi europei, nel cui impiego i tedeschi sono maestri.

Oggi, nuovo capitolo della vicenda, ma stesso metodo. Di fronte all’emergenza la Germania va dritto per la sua strada. “I tedeschi non sono cattivi!” urlava tempo fa Carlo Cottarelli, oggi ideologo economico del PD.

E’ vero (ma le categorie morali buono/cattivo in economia non hanno senso): i tedeschi non sono cattivi, ma semplicemente sanno fare i loro interessi. Che al governo ci siano i democristiani di Angela Merkel o la socialdemocrazia di Olaf Scholz.

Grazie alle loro vigorose “spallate” l’industria tedesca rimarrà competitiva, quella degli altri europei e dell’Italia chissà. Quando poi, finita la follia della guerra, gli oleodotti Nord Stream verranno riattivati, la Germania sarà lì a coglierne i frutti, nuovamente.

Il nostro benessere e la guerra in Ucraina

Quanto ci costa la guerra del Donbass? I calcoli sono complessi, e certamente i costi non si limitano a qualche ora in meno di uso dell’aria condizionata di cui parlava Draghi.

Due sono i principali effetti: aumento del costo dell’energia con effetto a cascata su molti prezzi (inflazione verso il 10%); chiusura di mercati di sbocco per le merci europee.

Il benessere dell’Europa è stato pazientemente costruito nel dopoguerra, a partire dagli anni sessanta, su una Ostpolitik che verso la Russia metteva da parte i motivi di contrapposizione da guerra fredda, e valorizzava gli interessi comuni. Protagonista della Ostpolitik era la Germania, a partire da Willy Brandt, per continuare con Kohl, Schroeder e Merkel. Fondamentale la scelta della Germania, il paese non solo dell’aggressione nazista alla Russia infrantasi contro l’Armata rossa, poi arrivata fino a Berlino nel bunker di Hitler, ma più anticamente dei guerrieri dell’Ordine Teutonico, crociati diventati feroci colonizzatori dei territori baltici e slavi, soprattutto in Polonia e Lituania.

La Ostpolitik aveva avvicinato due mondi potenzialmente ostili, reso incruento il disfacimento dell’Unione Sovietica, e stabilito ragioni di mutua convenienza basati su uno scambio molto semplice: materie prime in cambio di tecnologie e beni di consumo di fascia alta.

Non solo gas e petrolio, ma rame, alluminio, nickel, legname, cereali: una fonte di approvvigionamento per tanti settori industriali. A prezzi spesso convenienti: il gas che affluisce attraverso il Nordstream 1 (e potenzialmente anche da Nordsteam 2), grazie ai grandi investimenti negli oleodotti, consente di approvvigionarsi a un prezzo del 30% inferiore a quello dell’arcaica filiera delle navicelle gasiere che viaggiano verso i rigassificatori e poi trasferiscono il prodotto in camion-cisterna. Uno spreco di risorse che con gli oleodotti sembrava superato.

Questo spreco è stimabile, dato il volume di importazioni, in 4 miliardi di Euro all’anno per l’Italia, e in 6 miliardi all’anno per la Germania.

Si chiudono poi i mercati di sbocco.  Per la Germania si chiudono i mercati per i macchinari industriali, le auto, i veicoli commerciali, i prodotti farmaceutici, le apparecchiature elettriche ed elettroniche, i prodotti medicali e ottici, gli aerei, i prodotti chimici: un valore di oltre 24 miliardi di Euro all’anno.

Per l’Italia si chiudono i mercati di macchinari industriali, apparecchiature elettriche, mobili, materiali per l’edilizia, plastiche, autoveicoli, articoli di abbigliamento, bevande, prodotti farmaceutici: un valore di circa 10 miliardi all’anno.

Germania e Italia sono i due paesi europei con le manifatture più importanti d’Europa. I colpi alle loro esportazioni e gli aggravi alle importazioni si trasferiscono non a caso alle quotazioni dell’Euro. Nel febbraio 2022, prima della guerra, un Euro valeva 1,14 Dollari, in luglio siamo alla parità: una svalutazione quindi del 13%.

Euro forte significava stabilità dei prezzi, tassi di interessi stabili, maggiore potere di acquisto all’estero.

Quello di legarsi alle importazioni di gas russo non è stato un errore della Merkel o chi altro prima di lei, ma una strategia pazientemente costruita che ha puntato sui buoni rapporti con la Russia per ridurre i costi delle materie prime e aprire interessanti mercati di sbocco. La Germania ha costruito e guidato la strategia, l’Italia sempre poco consapevole dei propri interessi ha semplicemente seguito. Poi, proprio perché poco consapevole, si è gettata con entusiasmo superficiale nell’avventura della guerra, che come le avventure poco pensate spesso portano a sorprese spiacevoli, prima di tutto per i cittadini (soprattutto quelli più poveri) e le imprese.

L’Ucraina e il meccanismo infernale del PIL

La tragica vicenda ucraina mostra meglio di ogni altra quanto siano errati  gli strumenti per la misurazione della ricchezza economica.

Se per dieci anni gli ucraini hanno distrutto a cannonate interi quartieri del Donbass abitati da filorussi ribelli, nessun problema. Se oggi i russi distruggono con i missili dei quartieri di Kiev, nessun problema.

Nel calcolo del PIL le distruzioni infatti non sono conteggiate! E men che meno le persone morte! Si conteggia invece la produzione di armi e si formano entusiastiche aspettative sulla ricostruzione e sull’incremento di PIL che ne deriverà. Stime eccitate sono già state elaborate in tale senso.

Più si distrugge e più si dovrà ricostruire. Il vero oggetto del contendere sarà CHI avrà il privilegio di fare business. Il buon (?) Zelensky ha promesso all’Italia che dovrà ricostruire il Donbass, che invece probabilmente sarà ricostruito da russi e cinesi, perché è difficile che gli ucraini possano riprenderselo. Ad altri paesi invece toccheranno altre aree, ad esempio Kiev: con un business ovviamente riservato ad americani e inglesi.

Per le statistiche il PIL correrà forte; in forma bieca, è questa la “distruzione creatrice” di cui parlava Schumpeter, e di cui economie come le nostre hanno purtroppo un maledetto bisogno. Forse bisogna ripensare qualcosa.

Un eterno fare e disfare

Ci fu l’epoca in cui, con il consueto unanimismo conformista dell’opinione pubblica, si decise che le Province erano inutili. La legge nº 56 del 7 aprile 2014 le trasformò in enti di secondo livello e molte delle loro competenze furono trasferite ad altri enti. Gli uffici furono svuotati e il personale trasferito a Regioni e altre amministrazioni pubbliche.

Il mainstream di allora aveva deciso che si trattava di enti inutili e di inutili costi. Il “fenomeno” dell’epoca (Renzi) era irresistibile e nessuno si opponeva.

I problemi però restavano: strade in cui cadevano i cavalcavia, scuole fatiscenti senza più manutenzione, formazione professionale rallentata rispetto alle esigenze del mercato del lavoro, programmazione del territorio scoordinata, ecc.

Ancora una volta si era scelto di affrontare dei problemi complessi con soluzioni semplici, inadeguate, e tali da aggravare i problemi.

Oggi, le Province tornano in auge. Stesso conformismo. Si vuole rilanciarle, per valorizzare i territori. Nessuna critica e nessuna autocritica. E gli anni persi? E i danni fatti? E le competenze distrutte?

Un eterno fare e disfare.